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Recensione di Marco Marra

“In ogni estate trovo che/un po’ di morte in fondo c’è/In ogni morte trovo che/un po’ d’estate in fondo c’è” – Baustelle


Qualsiasi cosa bella diventa totalmente apprezzabile solo nel momento in cui ne scopriamo il suo opposto. Alessandra Corbetta sceglie la stagione delle stagioni per svelarsi e svelarne tutto lo splendore dell’oscurità; in questa silloge l’estate è vista e vissuta con assoluta anti convenzionalità, in un modo che la rende ancora più bella. Perché struggente e autentica. Il tempo e i luoghi scandiscono il percorso dell’autrice, fissandone l’esperienza con rara e preziosa coerenza; perché ci vuole coraggio per guardare e guardarsi dentro con una tale profondità. Il concetto di gioventù che non potrà più essere “ritorna”, prepotente e nostalgico, nella sezione iniziale, PRIMA: “Me ne resto un po’ in disparte/dove posso riavere/vent’anni di meno, in quella/parte di emisfero dove/il sole tramonta tardi” […] “… è stato in un anno dei vent’anni/il drastico saluto, quell’invisibile perduto/che continua, fa capolino”. Anni verdi comunque filtrati attraverso una velata e matura malinconia: “e non so dire se ho sognato i giorni settembrini,/se alle giostre ho riso per davvero/del proiettile che fiero/buttava a terra la lattina”; anni in cui non si ha alcuna reticenza a entrare nelle pieghe del dolore: “Parte dal guinzaglio o dalla bocca del cane/che lo morde, parte dalla fretta del passaggio./Si apre piano prima, poi divora i giorni” […] “Nello stomaco gli acrobati si risvegliano:/qualcuno vedrebbe papaveri fiorire/tra le dita esili come l’inizio/incerto delle cose oppure raggi/sicuri e netti venuti da lontano/a separare il dolore dal dolore”. Un dolore che nella sezione centrale, DURANTE, si fa più intenso, assoluto, trafittivo. Passando dall’amarezza dell’illusione al ricordo struggente di una felicità che non è più: “Eravamo in ombra/tra i vicoli e poi/la piazza – Pietrasanta-/ci teneva astratta le mani/sottili e intrecciate./Ricordi? Eravamo”; toccando il tormento del dubbio nella consapevolezza premonitrice di un sentimento che sarebbe scemato: “Il tempo dei luoghi/è più lungo del nostro/- forse già allora sapevi/che io non sarei più tornato con te -/perché la mia mano l’ho data/a chi come me non crede/che un luogo ci tenga/per sempre”. E’ un travaglio emotivo in cui vibra la dura constatazione di un trasporto troppo fugace e del suo concretizzarsi in un addio: “Non volevo sapere e non l’ho saputo/quanto è veloce la parola addio,/come passa inosservata in mezzo a una gioia brevissima”. DOPO, la sezione che chiude il libro, altro non è che l’elaborazione della fine attraverso un “sentire” assolutamente personale in cui emerge tutto il carattere dell’autrice: “Ancora sei gradini cinque quattro/e le dita saranno sulla sbarra semi-calda/a riservare presenza, così tornerà quasi-vero/il giorno in cui ti ho dato chi ero, il giorno/dove partire era solo riconoscersi nel nome”. Di certo conscia della complessità della sua struttura emotiva, Alessandra Corbetta non manca (giustamente) di sottolineare le responsabilità e le mancanze dell’altro: “Ma un’altra persona/o in te te stesso creava il peso./E dubitavo più di tutto di questo:/del tempo e del suo male,/se con le tue mani, con le parole/delle tue traduzioni, con il sonno/nero degli anni che hai perso, potevi/(non si poteva) cambiare il corso/riparare il guasto”; comunque, sempre con eloquente sensibilità sullo sfondo di una continua e speranzosa apertura alla vita. Gli scritti confermano una cifra tecnica eccelsa che traspare dall’insieme strutturale, dal taglio e dal tono dei versi; e il registro lessicale raggiunge una singolarità davvero particolare. La sua diffusa spontaneità fa spesso pensare a stesure “di getto”, puramente embrionali; in realtà, laddove si palesa, anche la semplicità è studiata, “conosciuta”, così audace da renderla una forma artistica dentro l’espressione poetica stessa. E se alla fine la coerenza emerge trasversalmente da questa pubblicazione, ciò è dovuto primariamente all’indole tersa e autentica di colei che l’ha generata; “prima che il semaforo diventasse giallo e tu/ci fermassi, mostrandomi che per salvarsi/occorre sempre attraversare”: Alessandra Corbetta insegna che la vita va vissuta, al di là del colore e del grado di ogni esperienza. Una natura incondizionata e racchiusa, insieme al senso più profondo di questa silloge, nelle parole di Umberto Fiori: “E ti sento mancare/così profondamente/che non so/nemmeno più cos’eri”.   

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