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A CONTI FATTI

Non sono sicura si possa contare una mancanza, non so come si faccia. Non so se vada addizionata in quanto peso imperante da sommarsi al resto, o vada tolta, sottratta, per tutto ciò che si porta via, per tutto ciò che arresta.

 

Non so a quale dito farla corrispondere, se è la prima cosa da annoverare o quella che va a chiudere il bilancio.

 

Dove si mette ciò che non c’è ma esiste, seppur come inconsistenza, seppur come vuoto? Che poi, a conti fatti, non si potrebbe concepire un pieno senza un vuoto e vuoto è adesso quello che dimora dentro: grandi spazi, tempi persi, aria dispersa eppure stagnante di chi non ha aperto le finestre dopo una notte densa, di chi sovraffolla un luogo chiuso, di chi non riesce a uscire da un cunicolo e annaspa.

 

A conti fatti sento la tua mancanza aver preso casa su ognuna delle dita dove non ti si può più contare e, forse per questo, i conti continuano a non tornare.

Anche perché quello che coi numeri ci sapeva fare era tu; eri tu che mi insegnavi a fare i conti.

 

Ma “adesso facciamo i conti” tu non me l’hai detto, sei andato e basta; e quando ho capito che i conti, invece, andavano fatti, era troppo tardi, era come rimettersi a contare da capo quando, con fatica, si era arrivati a duemilacinquecentocinquantasette. Si potrebbe ancora, in effetti, riprendere dall’inizio- l’improbabilità non è impossibile-però con te così distante dilaga l’impossibilità del conteggio.

 

Non ti sembrano un po’ alti gli interessi? O, a conti fatti, è un pareggio doloroso necessario per far tornare il tuo capitale intatto?

 

Questo tempo che abbiamo trascorso lontani, i tuoi conti li ha fatti tornare?

 

 

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