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ADESSO QUO VADO?

È uscito nella sale il primo giorno dell’anno appena iniziato e nel giro di una settimana o poco più ha incassato oltre 40 milioni di euro; è il nuovo film di Luca Medici e Gennaro Nunziante: per tutti, l’ultimo di Checco Zalone.

 

Ed è subito un caso.

Vietato non criticare. Vietato limitarsi a prendere atto del successo. Bisogna capire, meditare, riflettere, sempre un po’ dall’alto, sempre con un po’ di preconcetto mischiato a una giusta dose di intellettualismo.

Cosa sconvolge? Cosa crea tanto scompiglio?

La questione, in realtà, è molto semplice, o almeno così a me pare.

 

Quo Vado? è un film comico, nel senso originario del termine: stile medio, risa, quotidianità, sintetizzando ovviamente.

Qui sta il primo non-problema. Perché anche se si dice che non si vuole riaprire ogni volta l’infinita diatriba tra tragedia e commedia, ogni volta, invece, lo si fa, perché il comico vale solo se contiene un po’ di tragico. Si fatica ad accettare che entrambi inducano una riflessione, che ambedue riescano ad avere un effetto catartico pur dipartendo da basi antitetiche. Ma non è l’essenza umana antitetica per antonomasia e necessitante, quindi, di entrambe le linfe?

Sembra molto ostico anche non andare a intaccare la classificazioni tra le arti e quelle all’interno di una stessa arte: perché un film di serie B o C, secondo non-problema, riesce a guadagnare molto di più di un film di serie A, stando alle classiche gerarchizzazioni?

Sopravviene, poi, la riflessione economica o non-problema numero tre; nonostante la crisi a livello generale e quella specifica delle sale cinematografiche tutti pagano il biglietto per il film di Checco; anzi lo prenotano pure, pagando il sovraprezzo della prenotazione.

Il non-problema numero quattro è, poi, quello centrale, riassuntivo degli altri e completivo rispetto a essi: perché la massa italiana, che pare inerme e ferma davanti a tante altre cose, si smuove, contagiata e contagiosa come le risate offerte dal film in questione, verso il film in questione?

Per lo stereotipo: del posto fisso, della famiglia, dell’Italia, dell’efficiente Europa del Nord.

Si smuove per l’iperbolica descrizione del posto fisso, della famiglia, dell’Italia, dell’efficiente Europa del Nord.

Esce di casa per la consapevolezza che stereotipi e iperboli narrative sono semplificazioni della realtà che aiutano, però, a capirla meglio, ad analizzarla, magari a smuoverla; oppure, senza pensare a figura retorica alcuna, seguono la scia ilare dell’intrattenimento disimpegnativo che non ha grossi effetti collaterali.

Abbandonano le loro dimore per la mimica di Checco, che costringe ad allentare la cinta di serietà apparente ma obbligatoria per stare al mondo (di oggi) e a riprendere un po’ di aria frizzantina nei polmoni.

 

Paghiamo il biglietto per Quo vado? perché siamo cinefili, snob, intellettuali, critici, ignoranti, stanchi, tristi, stufi, tranquilli, sereni, felici; perché l’ortodossia norvegese è efficace  e auspicabile, ma la nostra confusione italiana non finisce mai per stancarci del tutto; perché siamo flessibili, mobili e multitasking ma un pezzettino del nostro cuore nostalgico batte sempre per il posto fisso; perché siamo per la parità dei ruoli ma vedere l’uomo che stira e sistema magistralmente gli abiti ci fa ancora un po’ sorridere.

Perché, in fondo, al di là dei ruoli malvagi che siamo chiamati a ricoprire, siamo persone che ogni tanto, semplicemente, hanno voglia solo di ridere. Anche in faccia a chi dice che contro questo bisogna ribellarsi, uscendo dalla sala prima della fine.

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