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HO PERSO LE PAROLE, MA RESTANO LE EMOJI

 

Dalla comparsa della faccina che ride del 1963, alle icone create nel 1990 dal giapponese Shigetaka Kurita per portare chiarezza emozionale ai messaggi di testo; così potrebbe essere sintetizzata la storia delle Emoji, zattere di salvataggio di molte conversazioni online, colorato ornamento e ridondante specifica delle stesse. Le Emoji sono definibili, infatti, come immagini semplici e sgargianti, rappresentanti stati d’animo, persone, animali o cose, che coadiuvano i soggetti nella realizzazione di messaggi di testo (che di testo, in realtà, deficiono sempre più) nelle moderne applicazioni comunicative aventi una componente messaggistica (sono quindi ovunque).

Facebook, per esempio, nella primavera del 2013, ha introdotto la possibilità di aggiungere Emoji-post agli stati espressi in forma testuale e Zuckerberg sta ora testando in Spagna e Irlanda sei nuove Reactions da aggiungersi all’ormai celeberrimo pollice alzato: oltre al mi piace, saranno presenti l’amore, le risate, la felicità, lo stupore, la tristezza e la rabbia. Whatsapp, nella sua versione beta 2.12.161, ha introdotto addirittura la possibilità di colorare, con sei diverse sfumature, la carnagione di individui e di parti del loro corpo, in un’ottica di formale lungimiranza multietnica (con plauso del pubblico, che ha però riservato la sua standing ovation all’inserimento del dito medio alzato).

Due annotazioni di superficie prima di procedere a una valutazione critica del fenomeno in oggetto. Innanzitutto le Emoji si conformano perfettamente a quel processo di visualizzazione in cui la società odierna tende a incanalare ogni lembo della sua struttura culturale, sociale e umana insieme: le rappresentazioni visive a cui le Emoji danno vita combaciano, meglio delle bocche dei due innamorati di Hayez, con le aspettative e le richieste dei suoi utilizzatori. In seconda battuta, la semplificazione insita palesemente in queste icone del riduttivismo moderno rimanda a quella forma di pensiero e di modalità comunicativa promossa dagli strumenti tecnologici in cui le Emoji dimorano; trovare, magari su Instagram, un disegnino con gli Archeologi di De Chirico, per indicare il viaggio verso la sfera metafisica dell’uomo, farebbe quasi sorridere (quantomeno per l’effetto straniante che produrrebbero di fianco ad hashtag come #soleneabbiamo?).

Al di là di casi isolati di sperimentazione culturale tramite Emoji, come la riscrittura mediante le faccine del capolavoro di Melville re-intitolato Emoji Dick, le icone di cui sovrabbondano le nostre conversazioni scritte quotidiane parlano molto del sostrato intellettivo e umano della nostra società. Traspare, infatti, in maniera cristallina l’attitudine a propendere/far propendere verso la bella vita, ricca di cocktails, smalto per unghie e costumi da bagno e la volontà di conversare/far conversare relativamente ad argomenti neutri come le condizioni metereologiche, le festività designate dal calendario o, tema dei temi, il cibo (il causativo a indicare l’esistenza di un pilota esterno che detta, bisbigliando, il contenuto dei messaggi).

Le emozioni esprimibili sono codificate e stigmatizzate e, per di più, le icone che le rappresentano vengono utilizzate in maniera spropositata: accompagnano frasi in cui il solo testo basterebbe a filtrare il senso del messaggio oppure sostituiscono il messaggio stesso, con brachilogica frettolosità. Addirittura vengono usate come risposta ipersintetica a messaggi testuali più complessi, per aggirare il dovere di “dire qualcosa” di profondo o articolato e l’offesa di molti è grande quando non trovano un’Emoji al termine o all’interno di vocali e consonanti.

Le Emoji sono accattivanti nella loro semplicità, il loro text-appeal è innegabile, come anche la capacità di umanizzare gli scambi comunicativi: prendersela troppo con loro sarebbe fuori luogo; se non altro perché le icone in questione sono uno spaccato edotto di quella anatomo-politica tanto cara a Foucault, ovvero di quel processo in cui la socialità collettiva è costruita attraverso le pratiche e le abitudini individuali che vengono così prima costruite e poi perpetrate, per il mantenimento dello status quo voluto dal capitalismo trasparente (il pilota di cui sopra) che, alternando uno smile (finto) a un bacio (di Giuda), continua a dirigere le nostre esistenze, al fine di mantenerci in quello stato di quiescenza tanto dannoso per noi, quanto produttivo per lui.

Ma, appunto, l’Emoji con il dito medio alzato è stata introdotta. E rappresenta proprio quel dito medio che, senza bisogno di digitare nulla, potremmo alzare, dobbiamo alzare, contro chi ci vuole ridurre a una faccina che piange o che ride.

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