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IL FLOP DEL GRANDE FRATELLO

Da poche settimane il Grande Fratello è tornato a far capolino nelle nostre case. In attesa di vedere come andrà quest’ultima edizione, sebbene i dati in termini di ascolti siano già tutt’altro che confortanti, potrebbe essere curioso e utile indagare le cause alla base del flop della dodicesima edizione e, più in generale, le ragioni che hanno portato il reality in questione dall’essere punta di diamante del palinsesto Mediaset a programma necessitante di chiusura anticipata.

Si è trattato solo di un cambiamento delle preferenze televisive del pubblico italiano? Oppure il flop è dipeso da un’erronea scelta del cast, come sostenne il vicepresidente di Mediaset per spiegare la chiusura precoce della porta rossa? O, forse, esistono implicazioni più profonde alla base di questo avvenimento?

Si tenga conto che già la categoria ‘reality’, in cui il GF viene fatto rientrare, ci conduce in una dimensione altra rispetto a quella di un qualsiasi show televisivo. Da una parte, infatti, si annuncia allo spettatore che ciò che andrà a vedere è qualcosa di reale, inteso come qualcosa che normalmente accade nella vita quotidiana; in secondo luogo la realtà, nel senso di affermazione e prova d’esistenza, è tale solo laddove è possibile vederla, toccarla, per così dire, con mano; dunque, il reality è reale perché c’è, si vede e reali sono i suoi concorrenti poiché ci sono e sono monitorabili, in continuazione.

Da queste due congetture, come da due rigagnoli d’acqua non ben definiti e dal corso tortuoso, discende il fiume conclusivo per cui il reality è la vetrina della nostra realtà sociale, un frammento veritiero di un universo ben più ampio che però, tra le mura di una casa, trova una rappresentazione ottimale. Da qui l’espressione usata e abusata di reality come specchio della realtà: il patto che il reality ci porta a fare è quello di credere che ciò che andremo a vedere e sul quale ci viene addirittura lasciato un potere decisionale, è uno spaccato, seppur piccolo, di quello che siamo portati a pensare sia la normalità vissuta tra le mura domestiche.

Come in un contratto ingannevole però, dove le clausole più importanti sono scritte con caratteri microscopici, al momento della stipulazione del contratto tra società e reality, non viene fatta menzione, sebbene sia da considerarsi parte integrante della posta in gioco, che i concorrenti vengono selezionati sulla base di certi requisiti, di un’idea iniziale degli autori che vogliono far emergere un aspetto piuttosto che un altro e che le vicissitudini a cui daranno vita i protagonisti seguiranno, in verità, un fil rouge già tracciato.

Eppure, tale meccanismo ha funzionato perfettamente per diversi anni. Vedere persone recluse dentro una casa svolgere azioni apparentemente abituali, poterle seguire su varie piattaforme e con tempistiche differenti e poter incidere sul loro percorso di gioco è parso, per varie edizioni, qualcosa di stupefacente e accattivante.

In un mondo scosso da avvenimenti troppo grandi e disastrosi per poterne reggere l’impatto, mondo finito anch’esso, per intero, sotto le macerie universali delle Twin Towers, il GF diventa un modo, innanzitutto, per distogliere lo sguardo da se stessi e da una storia che intanto si scrive da sola; e guardare un po’ gli altri, quegli altri però simili a noi, come per avere la conferma che poi, in fondo, la barca è la stessa e che il mare non è così tempestoso. In un orologio che inizia a scandire sempre più velocemente i suoi rintocchi, il GF acquieta i ritmi, rilassa, conforta; la sua strettamente codificata naturalezza piace, le sue telecamere soddisfano quell’innato senso di curiosità tipico dell’uomo, la sua popolarità lo trasforma in un nuovo argomento di conversazione sul quale tutti, come per le condizioni meteorologiche, possono dire la loro.

Dietro alla simpatia per l’uno o l’altro personaggio è più facile esprimere se stessi, raccontarsi, prendere posizione perché in prima fila non ci siamo noi ma i reclusi; con il televoto facciamo valere la nostra opinione perché lì ci è dato farlo; con il pensiero torniamo a sperare che anche se siamo persone normali, il sogno di gloria possa ancora avverarsi. A distanza di dieci anni siamo ancora noi, ancora alle prese con la nostra realtà; una realtà nella quale abbiamo ancora lo stesso bisogno di capire chi siamo, di definire la nostra identità, di guardare fuori per vederci dentro, di osservare gli altri per scoprire noi stessi; una realtà che non trova più, però, risposte soddisfacenti nel GF ma prova a cercarle altrove, in Facebook e nei Social Network in primis.

Del resto, e rubo gli interrogativi a Farci, “nel momento in cui aggiorniamo su Facebook la nostra situazione sentimentale, raccontiamo in terza persona le nostre esperienze quotidiane alla cerchia degli amici che ci leggono, o aderiamo ad una gruppo di discussione che ha come oggetto una emozione o uno stato d’animo, siamo davvero così diversi dal personaggio di un reality che esterna le proprie emozioni oggettivate come merci in vetrina dentro la stanza di un confessionale?

Non scorre, forse, al fondo di quella medesima ansia da confessione che caratterizza piattaforme espressive come reality show e social network, lo stesso vocabolario sentimentale, quella stessa strategia di gestione pubblica dei sentimenti che sta trasformando il nostro io in un fatto pubblico ed emotivo?” Se la risposta alle domande iniziali appare ormai evidente, lasciamo a queste finali il tempo per rifletterci sopra ancora un poco.

 

 

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