ALESSANDRA
CORBETTA
Recensione di Andrea Galgano
Corpo della gioventù di Alessandra Corbetta, edito da Puntoacapo, con la prefazione di Ivan Fedeli e le note di Lamberto Garzia e Tomaso Kemeny, è un alfabeto di lontananze stratificate e rarefatte, e poi spaesate e ricolme. Ed è in questa materia di agognati transiti, scritture che cercano il compasso lieve di passaggi, che recano con sé scoperta e inadeguatezza, che dimora l’etimologia della sua scena, del suo indocile pensiero poetante, che prende di petto la naturalezza del poeta, vivendone non la pulsionalità frettolosa del dire, ma lo svelamento, la libertà, la destinazione, il corpo-segno e la tipografia dei fondi.
Il corpo della gioventù, che come dice giustamente Davide Rondoni, pur nella sfrontatezza non ha nulla di esibitorio, cammina in bilico con la luce, a volte sassosa ma in senso celaniano («È tempo che la pietra accetti di fiorire»), a volte unendo una dattilografia ebbra.
Nella sezione "Fessure", che non a caso porta come epigrafe l’inesausta domanda di Pier Vittorio Tondelli, cerca trasparenze di archi («Nessuna colpa, se alle fessure degli archi / preferì la luce della vetrina. In fondo, / anche lei cammina in bilico / tra sasso e poesia»), fermate di corolle, albe di ombra che attendono resurrezioni: «Fuori dalla finestra ci aspetta una risurrezione: /colore d’ambra e alba senza fine / la preghiera che mi sentirai dire / piegata sulle tue ginocchia».
La potenza della forza delle immagini, dai dettagli d’addio delle sale giochi che narrano di sguardi quasi sbriciolati («l’addio è solo una partita / che ricomincia») e dal buio atroce che si lega all’esilità della nostalgia («il blu e atroce, ora lo sai. Ha per prezzo / il lancio folle della moneta, / caduta a terra nel cappello del mendicante»), allo smarrimento dei fondi di pioggia.
Il lungo corpo a corpo con la vita e il nulla richiede sempre che la posizione dell’io, viva contrasti e tregue. Come avviene nella seconda sezione, "Attraverso", qui con epigrafe di Davide Rondoni, in cui l’attraversamento diventa attesa appesa e il gioco versificatorio entra dentro il significante per denudare la bellezza stretta di un movimento rapido o di un bacio che possa salvare.
Il suo fiato è una mano che porta nelle linee fotogrammi che sono dimore protese all’infinito, intermittenze di abito e fuochi di finestra. È un nomadismo di bellezza e fondo fulgido: «Al nome più bello del mondo risponde / la schiena forte dei tuoi anni /le glorie / mille colori trasportate come dal mare / le conchiglie / e la sfilza di cose da fare, le cameriere / a cui di nuovo toccare la mano / E buio nel fondo / del tuo nomade andare fiero / di lupo per questo / il mio amore non può essere / che pupilla nerissima / in costante dilatazione / per ogni riva ogni stazione dove / ci incontreremo ancora e ancora e ancora / senza quasi» (Senza quasi).
Nei "Rintocchi", con apertura delle ariosità di Giuseppe Conte, questi suoni si amano e si vincono, propendendosi e lasciandosi attraversare, quasi che la mancanza debba accompagnarsi anche al vuoto, al dolore, alla morte e al terrore, e al sibilo delle sveglie.
I "Battenti" compiono una vertigine rarefatta e rastremata, una dolcezza di tenebra e profumo di ombra («Forse dentro il Carro Maggiore o / nel Carro Minore il battito / di bacchette perfette di legno / sarà la sola possibile / esplosione del canto / del mio oscuro cuore / scurissimo buio compreso / tra le tenebre e il suo / dolcissimo nome») che dilata primavere quasi imperfette e avvinte, che diventano potenza singolare di un universale mosaico di sogni, solitudini caduche e splendenti che fiutano Machado, fino al minimale spasmo che omaggia Umberto Fiori. Dischiude vitali chakra e deserti unici come segno di un tellurico corpo-anima.