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Recensione di Roberto Lamantea

Mi chiedo spesso che cos’è il tempo in poesia. Scrittura autobiografica; diario; percezione della fragilità della vita e del mondo; attesa; sgomento della fine; ballata; l’invito a godere delle piccole cose; ricordo, nostalgia, rimpianto; ironia dello specchio. Passaggio; scrittura/pittura del passaggio.

Corpo della gioventù di Alessandra Corbetta vede e respira il tempo quasi con affetto. Il tempo del libro è il corpo di chi scrive “io”, è un tempo vissuto con l’altro; è il tempo del proprio corpo, visto un attimo allo specchio o frantumato nello sguardo (treni, tram: in queste poesie lo sguardo è in movimento). C’è un continuo esserci, abitare ed essere il tempo: «Se ti addormenti sulla mia ombra / non spegneremo nessuna luce» (15).

 

Una poesia bellissima è “Blu” (17):

 

La rincorsa all’unicità

sfinisce

Dicono che la nostalgia m’appartenga

come l’esile equilibrio del fenicottero,

sicuro su una gamba sola. Il blu

sa essere tremendo

ma perdonerà questa fase rosa

di mattoni e nubi.

L’unicità è lì sospesa

tra l’onda e la sua schiuma:

 

il blu è atroce, ora lo sai. Ha per prezzo

il lancio folle della moneta,

caduta a terra

nel cappello del mendicante.

 

Quasi un fermo immagine, un flash: una fotografia ferma il movimento, quindi il tempo, in una poesia che è dedicata al tempo, a due colori classici nella loro simbologia, il rosa e l’azzurro, quasi una fiaba, il blu, simbolo della profondità, lo spazio del tempo.

 

Altre fotografie alludono ancora al tempo: il tempo dei giorni, dell’orologio e del calendario, gioca con il tempo climatico: «All’ufficio oggetti smarriti gli ombrelli / passano di mano in mano // in fondo / è sempre uguale / la pioggia»: cinque versi magnifici, tipograficamente spaziati nella pagina, che possono essere letti come la chiave del libro. E il tempo diviene batticuore – e si cancella – in una poesia d’amore come “Quasi nostro” (25).

 

Anche la giovinezza è tempo, ma in Corpo della gioventù non ha la danza del “Chi vuol esser lieto, sia”, il Trionfo di Bacco e Arianna di Lorenzo il Magnifico. Un altro dei testi è “Terza ora” (36) che chiude così: «mentre mi guardi / e canti e dormi e non avverti / il dolore atroce del mio passaggio / obbligato di gioventù» perché – è il distico iniziale –  «Non saremo mai l’armonia complice / tra violino e xilofono». Ma, si legge più avanti, «Se mi chiami per nome / rispondo» (42).

 

Il tempo diviene eliotianamente crudele verso la fine del libro, di un’inattesa amarezza: «a me, che non sono / mai iniziata» (52), e, in uno dei testi più duri, “Sono deserta” (54):

 

Sono deserta

in questo posto che non mi attraversa.

 

Nemmeno le rondini

che tornano sono le stesse

del marzo di prima.

Un tuffo in piscina e dicevi

quanto ero vecchia

a non voler crescere,

a voler restare bambina.

 

Nel libro di Alessandra Corbetta la coscienza del tempo ha la luce, gli spigoli, le ferite del diamante.

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