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Recensione di Gemma Mondanelli

La poetessa e scrittrice Alessandra Corbetta è una  giovane studiosa laureata in sociologia della Comunicazione e dei Media,  ha un vasto curriculum di master, collaborazioni a riviste culturali, giornali online, università, rubriche  online, blog e spazi poetici. Ho riassunto brevemente, in maniera incompleta, e Alessandra mi perdonerà, perché le sue competenze letterarie e dei media sono così vaste che non avrei avuto il tempo necessario per parlare di ciò che in questo momento mi sta a cuore e cioè del libro di poesie “Il Corpo della Gioventù”, che è stato presentato ad Arezzo alla libreria Feltrinelli il 14 settembre scorso.

Il libro, con copertina avorio, ha nel centro una conchiglia rossa, una valva lucente che forse è metafora dello splendore del corpo della gioventù come ognuno di noi lo intende, soprattutto quando la gioventù è passata e  il nostro pensiero va ad essa come l’età dell’oro della nostra vita.

Ma non sempre l’età di Saturno può essere metafora della giovinezza globalmente intesa. Essa è al di là di ogni catalogazione, come del resto lo sono anche le altre fasi della vita, che, per comodità, osiamo distinguere con troppa precisione e a volte leggerezza e banalità a scapito di quella visione globale in cui spesso le varie età si intersecano e non si distinguono.  Si può essere maturi a quindici anni e immaturi ad ottanta. Ogni età fa  parte di noi stessi in un connubio indissolubile e originale. Noi siamo quello che siamo: bambini, adulti, anziani, al di là di ciò che l’involucro, l’esteriorità del nostro corpo dimostra.

Il corpo della gioventù nasconde le proprie incognite, come la valva delle conchiglie, cose preziose o soltanto vuoto e amarezze, tutto ciò che fa parte dell’itinerario della crescita che dura fino alla morte.

A volte la gioventù è una prigione dalla quale si desidera fuggire, oppure è il desiderio di rimanere bambini, oppure ’ il dolore atroce’ di un passaggio obbligato. In essa si aprono fessure attraverso le quali si scopre la realtà, soprattutto l’incontro con gli altri in generale e con l’amore che non è quello delle favole con l’A maiuscola, ma un incontro- scontro con altri corpi, con altre realtà che si sognano, ma che lacerano, che lasciano segni che si accumulano in un patrimonio indelebile di vita vissuta. Attraverso fessure che diventano sempre più aperture laceranti di  conoscenza, si percepiscono quei  rintocchi di vita che poi diventano pensieri fissi, solitari e battenti, fino ad esplodere in turbinii di immagini,  che a volte creano un caleidoscopio di colori.

E’ la lingua usata ciò che affascina maggiormente nelle poesie di Alessandra, nelle quali dopo molteplici riletture, puoi trovare significati che  fioriscono con inaspettata ricchezza e che completano le tue sensazioni e le tue esperienze. Una lingua che abbonda di  quotidianità e di leggerezza, di  sofferta solitudine linguistica e di condivisione, di accostamenti insoliti che sembrano casuali, usciti da una cornucopia di immagini di parole che vivono nel profondo e che creano un ritmo musicale di un adagio solenne che contrasta con il titolo della silloge.

Anche l’amore, a mio avviso, è centrale in questa raccolta, anche se la poetessa non se ne fa coinvolgere e quasi non lo accetta. Esso è ciò  che ‘accade’ ma che poi si scolora in una prospettiva di continuità e nel rito  disarmante di ‘un giuramento truccato’.

Meglio rimanere a quando “ci stringiamo ancora la mano/ come al primo  incontro”.

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